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LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE
(THE LEGEND OF THE HOLY DRINKER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 ottobre 1988
 
di Ermanno Olmi, con Rutger Hauer, Anthony Quayle (Italia, 1988)
 

Che l'autore de L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI si facesse sedurre dal noto racconto di Joseph Roth (a tal punto da andare a girare all'estero ed in lingua straniera, d'ispirarsi ad un testo letterario piuttosto che ad una propria idea, di valersi di una star invece che d'attori non professionisti, di rinunciare alla direzione in proprio della fotografia; e tutto ciò praticamente per la prima volta) non è poi tanto strano.

La storia di LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE è infatti quella di un povero quanto dignitoso "clochard" che si vede improvvisamente piovere dal cielo tutti i soldi che gli occorrono. Con un solo problema, ed anche questo puramente morale: di restituire possibilmente i fatidici duecento franchi, una domenica mattina qualsiasi, alla santa Teresa della chiesa di Batignoles.

Tipicamente olmiano: i personaggi umili, barboni, baristi o sarti parigini piuttosto che piccoli impiegati milanesi o contadini della bassa padana. Toccati dalla grazia, dal miracolo della favola, o dalla Provvidenza se preferite: in quanto messi nella condizione di accedere alla purezza, alla semplicità, alla verità. O, come dicono coloro ai quali il programma non va troppo a genio, a quei buoni sentimenti che guidano la logica dei temi cari al regista.

Espressivamente, semmai, il film potrebbe sorprenderci: quelle illuminazioni rossastre o bluastre (dei ponti sulla Senna, di una balera di periferia che sembra ripescata da LE BAL di Ettore Scola), anche leggiadre e "magiche" come di dovere, colpiscono chi si ricorda dell'estrema semplicità dello stile di Olmi. Sono certamente volute; oltre che assai vicine all'universo pittorico di Dante Spinotti, il direttore della fotografia che Olmi ha voluto per la prima volta accanto a lui.

Ed il continuo accompagnamento, lancinante, della musica di Stravinski, concorre a far scivolare lentamente il film: dalla semplice osservazione, quasi naturalistica, della realtà parigina al ricordo dell'infanzia, dell'esempio dei genitori, dell'onestà della civiltà contadina. Alla ricorrenza tipicamente kafkiana, la meccanica infernale, la contrapposizione metaforica tra il Bene ed il Male, la salvezza e la dannazione lo conduce su tempi sempre più dilatati e ripetitivi. E sempre più distanti da quelli del racconto di Roth, che incalzava invece, aggressivo e sorprendente.

Si passa cosi da pagine leggere ed ispirate (il primo incontro con l'"angelo" benefattore nella luce dorata del tramonto, il piacere della prima rasatura dal barbiere, il sole che invade i tetti nello scampanio della domenica parigina, l'incontro con il sarto ed i piccoli personaggi visti con occhio ormai diverso) a sottolineature allusive quasi compiaciute. I flash-back esplicativi si moltiplicano, le facciate dei bistrot sono calcolate al millimetro, con il metrò che passa al momento giusto, ed il semaforo che rimane al rosso perché gioca meglio cromaticamente. Gli incontri sessuali (che non sono mai stati una specialità dell'autore) si risolvono in una vera e propria calamità: per renderci conto di essere in un bordello, e non in una cucina nostrana, occorre che la cinepresa inquadri finalmente le gambotte della supposta fille de joie. E se in Roth erano fonte di gioia, qui si riducono in breve all'equazione, probabilmente non accettata universalmente, che donna significhi demonio.

Rutger Hauer, il cattivo di BLADE RUNNER, è perfetto nella parte del povero cristo dalla ci minuscola: se il film esaspera ma commuove è anche grazie a lui.


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